La sfida del Diversity Management – Intervista a Massimiliano Monaci

Il diversity management sta acquisendo un’importanza sempre maggiore, poiché la nostra società è sempre più multiculturale e multietnica. Su questo tema abbiamo intervistato Massimiliano Monaci, Professore di Sociologia all’Università Cattolica di Milano, grande esperto in materia.

Cos’è il Diversity Management? In cosa consiste? 

Come dice l’espressione, il diversity management è l’approccio delle organizzazioni e, in particolare dei manager, alla valorizzazione delle differenze che le persone portano. Andando più in profondità, riguarda il tentativo di creare un’organizzazione e, ancora prima una cultura organizzativa inclusiva, perchè l’idea è quella innanzitutto di riconoscere esperienze, identità e bisogni delle persone, che si differenziano per molteplici dimensioni: genere, età, background professionale e formativo, status familiare.

Inoltre, diversità non significa diversity management. Si può anche avere un’organizzazione estremamente variegata, con donne, giovani e senior e persone di molte etnie, ma questo vuol dire solo essere eterogenei. Diversity management vuol dire lavorare su questa eterogeneità interna.  

Perché è importante gestire bene la diversità in ambito aziendale?

Riconoscere e valorizzare le diversità è cruciale: diventa un vantaggio sia per le persone stesse sia per l’intera organizzazione perché si riscontrano miglioramenti delle performance e delle prestazioni. I singoli collaboratori, vedendo riconosciuti e apprezzati questi valori, saranno portati a lavorare con più impegno e maggiore soddisfazione. 

Oltre a impatti positivi sulle persone il diversity management offre maggiori possibilità di problem solving, del “thinking outside the box”, cioè il fatto che grazie alla diversità si aprono nuove prospettive. Tutto ciò ovviamente richiede uno sforzo da parte di ciascuna organizzazione per trovare la formula più adatta rispetto alla propria cultura e al contesto.

Quali sono i risvolti concreti nel contesto organizzativo? 

Il team manager ha un ruolo fondamentale per attuare il diversity management: sarà infatti sua la responsabilità di far circolare informazioni tra i collaboratori per contrastare la creazione di stereotipi e far sì che tutti abbiano modo di esprimersi liberamente e comunicare. Occorre dare spazio a tutte le diversità.

Infine, ci sono tutti i risvolti dal punto di vista del risk management, perché un ambiente più inclusivo vuol dire minori probabilità di problemi dal punto di vista dei rischi psicosociali, casi di mobbing,  maggiore serenità e quindi produttività delle persone, oltre che maggiori risorse per l’internazionalizzazione del business. 

Quali sono gli aspetti critici per l’inclusione? Quali politiche possono favorirla?

Il punto è quello di valorizzare le varie diversità a vantaggio delle persone e del gruppo. L’eterogeneità resta, ma non è sufficiente. Non è importante sapere se ci siano 50% donne e 50% uomini, nella misura in cui poi la maggior parte delle donne sono in una posizione, dal punto di vista gerarchico, medio-bassa. Quest’ultimo dato è molto più interessante, perché indica se è stato fatto qualcosa dal punto di vista delle prospettive di carriera, della formazione, del coaching e del work-life balance.

Per favorire l’inclusione, bisogna comunicare cosa si sta facendo e perché: la conoscenza e la comunicazione sono le leve che prevengono il tipico problema della discriminazione al contrario, cioè la percezione che si stiano favorendo, senza motivazioni, determinati gruppi.

L’attuale situazione sanitaria può aver generato cambiamenti in termini di diversity management che si protrarranno nel tempo?

È una cosa che si sta evolvendo sotto i nostri occhi, per cui non abbiamo dei punti fermi. Specialmente nei primi mesi, nonostante si dicesse che 10/12 milioni di italiani in più hanno sperimentato per la prima volta il lavoro in smart-working, in realtà, non era smart-working: era lavoro da casa, per cui ci si portava dei pezzi di lavoro a casa e lo si faceva, in media come lo si faceva in ufficio, ma in condizioni più precarie. Il vero smart-working si basa su tre parole chiave: responsabilità, nel senso che le persone sanno quello che devono fare in vista degli obiettivi, anche se non sono controllati nelle forme convenzionali; fiducia, nel senso che le imprese devono avere buoni elementi per confidare nel fatto che le loro persone lavorino allo stesso modo; conoscenza, nell’ambito di iniziative di smart-working, ognuno deve conoscere la logica complessiva del sistema in cui lavora per poter raggiungere al meglio gli obiettivi. Questo vuol dire informarlo, fare formazione, dargli delle possibilità di decidere.

Diversity management vuol dire ancora una volta conoscere le proprie persone e le proprie situazioni. Chiaramente i discorsi di sviluppo auspicabile di cui parlavo, anche nel caso dello smart working, vanno fatti rendendosi conto delle specificità di settori e attività all’interno della stessa azienda. 

Cosa consiglierebbe ai manager che si occupano di risorse umane che vogliono cominciare un percorso del genere?  

Il primo passaggio è sicuramente la conoscenza del proprio contesto interno, ovvero la sua composizione in termini demografici: genere, titolo di studio, età, provenienza geografica e di settore. È necessario inoltre promuovere le indagini di clima, utili a mappare i bisogni, le esigenze e le esperienze che in quella data fase le persone stanno vivendo. Un’indagine di questo tipo è il primo passaggio: per poter agire devo conoscere. Manager e HR hanno un ruolo fondamentale innanzitutto nel convincere i vertici che è necessario dedicare tempo ad analisi di questo tipo. Un’azienda dove ci sono persone, magari HR manager, molto sensibili e visionarie, ma che non riescono ad ottenere l’appoggio dei cosiddetti decision maker, non riuscirà a sviluppare politiche di diversity management efficaci. 

Gli elementi fondamentali quindi sono: (1) conoscenza dell’organizzazione dal proprio interno (intesa anche come conoscenza culturale e quindi degli stereotipi, dei pregiudizi etc.); (2) coinvolgimento dei vertici; (3) valutazione di quali diversità contano per l’organizzazione in quella determinata fase e del perchè, trovando una corrispondenza fra eterogeneità attuale e potenziale.
Bisogna avere la consapevolezza che più è ambizioso il percorso e più ci saranno ostacoli, rendendo necessario quindi un periodo più lungo. 

Andrea Scolari, Valeria Serafini

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